Se avete il tempo e la voglia di dedicare energie alla lettura di questi brevi racconti, sono sicuro che qualche domanda, rispetto all’autore, ve la siete già posta. Che cosa  pensa un pilota di mongolfiere? Assomiglierà ad una specie di incrocio tra un drago e un minotauro, un umanoide sputafuoco che si alimenta quindi di solo peperoncino calabrese? Ma soprattutto, come diavolo ci è diventato così?
Tenterò di rispondere a tutti questi dubbi esistenziali nelle righe che seguono, ovviamente raccontando la mia storia: scordatevi l’archetipo degli avventurieri e dei pionieri, qui niente eroismi, ma sono convinto che qualche risata ve la ruberò.
Lo scrivente, prima di trasformarsi in pilota professionista, lavorava senza troppo entusiasmo in qualità di disegnatore meccanico. Era una carriera, se proprio vogliamo definirla così, che sostanzialmente non era stata scelta dall’amore per la materia, bensì da considerazioni di ordine pratico: il settore metalmeccanico è sempre stato una garanzia di posto fisso, almeno fino a qualche anno fa. La comprensibile disaffezione ad un ambiente sempre di corsa, sempre in affanno, fa sì che tuttora i disegnatori
tecnici siano considerati al pari di bestie rare, novelli arieti dal vello d’oro che le aziende si contendono sul mercato.
Immerso da anni in questo grigiume professionale, il mio primo ed indimenticabile volo in pallone fu un evento che mi scosse profondamente da questo torpore, in quanto le sensazioni, le emozioni e la bellezza provate ed osservate furono così intense da imprimermi a fuoco questo ricordo nella memoria, ma anche da facilitarmi nel metter su la mia peggiore faccia tosta nel chiedere ai conducenti: ‘Vi servono nuovi piloti?’ La risposta fu un ‘parliamone’, che nella fattispecie era un po’ interessata, in quanto chi me la diede era anche un istruttore di volo, che fu dunque il mio mentore.
Per questo motivo comunque lo ringrazio.

Che cosa pensa un pilota di mongolfiere? Assomiglierà ad una specie di incrocio tra un drago e un minotauro, un umanoide sputafuoco che si alimenta quindi di solo peperoncino calabrese?

Se dobbiamo però immaginarci una piramide di motivazioni e pulsioni differenti che mi spinsero a farne una professione, sicuramente al vertice troveremmo Giovanni.
Parafrasando Manzoni, chi è costui?
Nell’ufficio in cui lavoravo all’epoca, in una solidissima azienda del cuneese, era stipato un potenziale umano davvero notevole, che nonostante la mia poca propensione nei confronti di quel lavoro mi dava la forza di presenziare ogni mattina. Partendo dal fondo si poteva trovare Roberto, quarantenne un po’ cinico e disilluso, che ci dispensava i suoi peggiori consigli in fatto di donne. Risalendo di un posto ci si imbatteva in Corrado, grande animatore di feste varie: leggenda vuole che ogni tanto si
addormentasse davanti allo schermo, ma che anche in questi casi riuscisse a muovere il mouse. Poi Giorgio, il clown della compagnia nonostante l’immensa cultura, immensa peraltro quanto la sua testa e le sue orecchie apparivano ai nostri occhi e ai nostri sfottò. Dopo arrivava Mosè, che a discapito del nome era il più giovane e il più esuberante. Davanti al personaggio biblico rimanevano la mia postazione e quella di
Wojtek, collega polacco che conosceva oramai tutte le peggiori parolacce in italiano.
La loro accoglienza nei miei confronti era stata molto carina: per rompere il ghiaccio avevo raccontato una barzelletta, e tutti avevano riso. Mi confessarono soltanto sei mesi dopo che nessuno l’aveva capita.
E Giovanni, direte voi? Lui era il nostro superiore. Dimorava nell’ufficio a fianco e ogni qualvolta i toni, da noi, si alzavano un po’ troppo, partiva in missione punitiva. In realtà, spesso queste sgridate / umiliazioni venivano dispensate senza motivi particolari, probabilmente per la necessità di rimarcare il proprio ruolo. Diciamo con un eufemismo che non era particolarmente amato.

‘Vi servono nuovi piloti?’ La risposta fu un ‘parliamone’, che nella fattispecie era un po’ interessata, in quanto chi me la diede era anche un istruttore di volo, che fu dunque il mio mentore.
Per questo motivo comunque lo ringrazio.

Ad ogni modo, noi ci sfogavamo con Giorgio. Era il catalizzatore delle nostre peggiori battute e dei più fantasiosi insulti, e lui stava al gioco e rispondeva a tono. Avevamo instaurato un bel clima cameratesco, forse proprio grazie alla nemesi rappresentata dal nostro capo. Giorgio era anche il destinatario dei nostri scherzi: una volta gli ‘ingessammo’ il mouse, ingabbiandone il filo in un’anima di cartone, in modo che non avesse più possibilità di muoverlo.
Lo scherzo migliore rimase comunque di gran lunga quello ideato da Mosè e dal sottoscritto. Era un sabato mattina, nessuno dei due aveva la minima voglia di stare in ufficio, era un periodo pesante dal punto di vista lavorativo: avevamo esaurito le energie nervose.
Gli proposi di attaccare due mouse sullo stesso computer, per provare a simulare il tiro alla fune: avrebbe vinto chi fosse riuscito a spostare il puntatore dal proprio lato. Dopo aver appurato che il sistema funzionava, Mosè ebbe l’illuminazione: perché non collegare un secondo mouse al computer di Giorgio, in modo da farlo impazzire? Per come erano disposte le scrivanie, avrebbe avuto la possibilità di prendere il controllo
della sua stazione, senza farsi vedere.
E così fu: per più di un mese dovemmo trattenere a stento le risa, quando Giorgio bestemmiava in quanto il suo pc faceva le bizze. Coinvolgemmo nello scherzo anche un tecnico informatico, che dispensò consigli esilaranti (non arrotolare il filo del dispositivo di puntamento, quando l’hai cambiato hai tolto quello vecchio?) facendoci sbellicare. Dopo svariate settimane, decidemmo che la misura fosse colma: facemmo trovare a Giorgio una mia fotografia, infilato sotto la scrivania di Mosè, nell’atto di indicare il secondo mouse. Il nostro collega, molto sportivamente, ci fece i complimenti per la trovata.

Torniamo a noi però: perché Giovanni è così fondamentale in questa vicenda? Anchem in questo caso, si tratta di una misura da colmare. Da tempo ero stufo di quel mondo frenetico, degli orari pesanti, dei ritmi per me troppo elevati, e tutto questo mi pareva essere impersonificato perfettamente dal mio superiore e dalle sue nevrosi. I rapporti erano tesi già da un pezzo, da parte mia comunque cercavo sempre di impegnarmi al
massimo e fare del mio meglio per il bene dell’azienda.
Almeno fino a quel giorno in cui il buon Giovanni si avvicinò alla mia postazione annunciandomi che su un grosso macchinario ormai quasi terminato ci eravamo dimenticati un microinterruttore.

‘Apri il disegno complessivo, diamo insieme un’occhiata su come piazzarlo’
‘Ok’
‘Ok? Cosa vuol dire ok? Sai già dove metterlo? Vuoi venire tu al posto mio? (o cose
del genere, comunque in tono aggressivo, ora non ricordo esattamente – nda)’
‘No Gianni, intendevo dire Ok, apro il disegno’.

Giovanni si tranquillizzò, ma questo breve dialogo mi lasciò con un profondo senso di turbamento: sentivo di dover cambiare qualcosa in modo radicale, per evitare di finire con un esaurimento nervoso. Era stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Per mia fortuna, avevo già individuato cosa mi sarebbe piaciuto fare da grande, e non ebbi più remore nel perseguire questo obbiettivo. Questo episodio fu dunque determinante per il mio destino. Credo che Giovanni, suo malgrado, sia detentore di parte del merito, e di questo gli sarò sempre grato.

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